In definitiva difesa di Lana del Rey
In definitiva difesa di Lana del Rey
Recensione contribuito da Filippo Colombo di Futura 1993
A Lana Del Rey, negli anni, hanno detto di tutto: che le sue canzoni erano tutte uguali; che le sue strategie di promozione erano sconclusionate e insensate; che i suoi pezzi proponevano pericolosi encomi di situazioni tossiche e nocive; che non era abbastanza femminista, abbastanza attivista, abbastanza attenta a tematiche di disagio sociale; che va bene, per quest’album ok, ma dal prossimo che succederà?
E Lana, negli anni, ha risposto a suo modo. Custodendo gelosamente la sua privacy (il suo profilo instagram, @honeymoon, è privato), con qualche post social per la verità un po’ involuto e non risolutivo – ma, soprattutto, con la musica. Musica alla quale ha affidato, negli anni, risposte esplicite (come il riferimento alla partecipazione alle manifestazioni Black Lives Matter in Text book), e con la quale si è presa gioco delle critiche, rilasciando album a distanza ravvicinata e producendo dischi lunghi e complessi, ma soprattutto, musica come deus ex machina a dimenticare le accuse e a spostare il centro dell’attenzione altrove, su un territorio che padroneggia con agio.
Ed è proprio la musica che è tornata a splendere con Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd, l’ottavo album in studio rilasciato venerdì 24 Marzo (il nono se si conta anche Lana del Ray A.K.A. Lizzy Grant), e che per l’ennesima volta mi ha lasciato di fronte al pensiero che, probabilmente, è il disco migliore dell’artista fino a oggi.
Al netto di Born to die – Paradise Edition è l’album più lungo della cantante: sedici pezzi e un’ora e diciassette minuti, che se la matematica non inganna significa che i pezzi durano in media 4.8 minuti ciascuno, non proprio una pratica usuale nella contemporaneità. È un album complesso, viscerale, che richiede cura e attenzione per essere compreso, e che, forse una volta per tutte, isola Lana del Rey dalla competizione tra popstar come Miley Cyrus, Lady Gaga, Dua Lipa, collocandola in un atollo lontano, diverso e che, nel panorama musicale mondiale, abita sola.
Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd si regge su tre macro-pilastri, che ne segnano anche lo scostamento dal resto della sua discografia: il primo, il ricorso a tematiche estremamente introspettive e personali, dal rapporto con la propria famiglia, alla morte, alle retrospettive sul proprio passato senza sconti; il secondo, il processo creativo dell’artista, che lei ha stessa ha definito verboso, perlopiù strutturato su un cantato tutto in una volta e inviato ai due produttori del disco, Jack Antonoff e Drew Erickson, che hanno aggiunto con maestria pochi e scarni strumenti; il terzo, il frequente ricorso a campionature di pezzi propri e di altri a disegnare la linea melodica dei brani. Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd è un invito aperto a sfogliare i diari dell’artista, che ricordano a tratti quelli di Sylvia Plath, in cui il vissuto di Lana del Rey diventa accessibile a tutti quanti, cantato senza paura, senza remore e con una calibrata dose di cinismo.
Schematizzando – ma solo ai fini narrativi – l’album si può dividere in tre parti, che tuttavia sono in egual modo funzionali alla riuscita maestosa del lavoro.
La prima parte, da The Grants fino a Jon Batiste Interlude, contiene i tre singoli rilasciati e i due interludi, e introduce il carattere personale del disco.
Nel primo pezzo, The Grants, brano con un intro gospel che sfuma in un arrangiamento orchestrale, Lana racconta dei suoi affetti familiari e di cosa porterà di loro con sé quando sarà ora di morire: il figlio di sua sorella, l’ultimo sorriso di sua nonna – in un susseguirsi di ricordi puri e commoventi Lana traccia quasi un bilancio della sua vita, per ricordare, in primo luogo a se stessa, di praticare la gratitudine. Segue la title track, Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd, pezzo che più di tutti ricorda la Lana degli esordi nell’hook melodicamente cantabile “fuck me to death / love me until I love myself”. In Sweet, terzo brano, campionato dal pezzo mai rilasciato Wait for life di Emilie Haynie, Lana alza lo sguardo sull’esistenziale e rifugge dal carnale, cantando Do you contemplate where we came from?/ Lately, we've been makin' out a lot / Not talkin' 'bout the stuff that's at the very heart of things / Do you want children? Do you wanna marry me? su una produzione orchestrale e noir al confine con il funereo, tenendo lunghe le note finali degli incisi, suo marchio di fabbrica. A&W, pezzo che originariamente si chiamava American whore, e che Jack Antonoff ha dichiarato essere la sua produzione preferita per l’artista, è un disarmante e nudo racconto della dipendenza dal sesso dell’artista, che da metà in poi sfocia a sorpresa nell’elettronica e nell’urban. In mezzo ai due interludi, il primo con un discorso di Judah Smith, controverso pastore americano, e il secondo spettrale sul pianoforte di Jon Batiste, si inserisce il primo duetto dell’album, Candy Necklace, dove Lana canta sulle note di pianoforte suonate da Jon Batiste, premio Oscar alla miglior colonna sonora originale con Soul.
La seconda parte si compone dei due pezzi centrali, Kintsugi e Fingertips, i due capolavori del disco. Come Lana stessa ha dichiarato, sono due brani che danno voce ai suoi pensieri più intimi, scritti di getto e affidati alla produzione rispettivamente di Antonoff e Dickson, fidandosi ciecamente della loro sensibilità esaudita nell’aver aggiunto poche e soffuse note, lasciando le parole protagoniste assolute. Nel primo pezzo, il riferimento è all’arte giapponese del riparare con l’oro, che Lana usa come precetto per sopravvivere a eventi distruttivi come la morte di alcuni familiari, e solo così si potrà let the light get in. Il secondo è invece una retrospettiva sulla propria famiglia, sui problemi e sugli allontanamenti, con frequenti riferimenti alla mitologia greca.
Nella terza e conclusiva parte, la tensione personale si allenta un po’ e lascia spazio ai duetti e a qualche sperimentazione musicale. Si trova Paris, Texas, duettata con SYML e completa campionatura di I wanted to leave dello stesso SYML, Grandfather please stand on the shoulders of my father while he’s deep sea-fishing, dal titolo chilometrico, con la melodia del piano che riprende la traccia strumentale Flo del pianista RIOPY, e i due duetti più riusciti, da un lato Let the light in, che riprende l’hook di Kinstugi e canta con Father John Misty di un amore senza equilibrio d’intenti, e l’inno alla gioia Margaret, in duetto con Bleachers dedicata alla moglie di Jack Antonoff, un pezzo che Lana stessa ha definito esser nato con l’intenzione di essere suonato al matrimonio. Passando per Fishtail e il duetto con Tommy Genesis Peppers, si arriva a Taco Truck x VB, epilogo, dove suona la versione originale e mai rilasciata di Venice Bitch, quasi a chiudere un cerchio iniziato con Norman Fucking Rockwell!
Con Lana del Rey la sensazione, a ogni nuova produzione, di trovarsi davanti al miglior lavoro della sua carriera è frequente. Al di là dei giudizi di merito, che lasciano spesso il tempo che trovano, quello che Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd sancisce è una collocazione dell’artista in un territorio, all’interno della musica mondiale, che ha saputo cementare da sola – e avvicinarvisi, a oggi, non è permesso a nessuno. Certo, Lana potrebbe decidere di virare sul pop, sul jazz, sul blues, su brani che strizzano l’occhio alle radio, e avrebbe certamente la capacità e il team perfetti per riuscirci. Ma personalmente, non trovo neanche un lontano motivo per il quale un’operazione di questo tipo avrebbe senso. E per fortuna, mi pare non lo trovi neanche Lana del Rey.
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