Intervista: Vasco Brondi

Intervista: Vasco Brondi

Paesaggio dopo la battaglia: la mappa esistenzialista dell’immaginario di Vasco Brondi

Articolo contribuito da Paola Paniccia di Futura1993

Venerdì 7 maggio è uscito l’ultimo album di Vasco Brondi, Paesaggio dopo la Battaglia, il primo pubblicato con il suo nome, senza il suo alter ego Le Luci della Centrale Elettrica. Abbiamo avuto il piacere di assistere alla conferenza stampa per l’uscita del disco, dove ci ha spiegato meglio tutto l’immaginario che c’è dietro la sua arte.

Il disco prende il titolo dall’omonima canzone, che è una canzone d’amore un po’ anomala: invece che essere riferita ad una persona è riferita ad un’entità, cioè la nostra nazione. Scrivendo questa canzone si è reso conto che “Paesaggio dopo la Battaglia” poteva anche essere un buon contenitore per tutti gli altri brani, perché questo disco è pieno di battaglie: intime, collettive, personali e universali, ed è anche pieno di paesaggi interiori ed esteriori.

La foto di copertina è un inedito di Ghirri scattata nel 1986 a Bondeno, in provincia di Ferrara. Una di quelle ambientazioni dove sembra non poter succedere mai niente, e invece può diventare un luogo epico. Gli piaceva anche questo collegamento con i suoi posti, con i posti dove è cresciuto, lo riportava al suo punto di partenza. Questo scatto gli risuonava anche rispetto alle canzoni e rispetto al titolo: c’è questo pandino traballante, che esce coi fanali accesi fiducioso come se niente fosse, da un’apocalisse, da una nuvola nera.

Insieme al cd esce un libro, dove c’è tutto quello che è esondato dalle canzoni, e c’è anche una sorta di diario on the road in un’Italia completamente deserta, mentre percorreva l’A1 da Ferrara a Brescia o Milano per andare in studio. «Arrivavo in studio dove c’era o Taketo Gohara o Fede Dragogna e ci mettevamo attorno alla musica come attorno a un fuoco per scaldarsi».

In Chitarra Nera, una canzone d’amore per un amico, scritta dopo un paio d’anni che non scriveva più niente, vengono ripresi dei personaggi, delle storie del suo primo album, Canzoni da Spiaggia Deturpata. Quindi i personaggi di questo brano sono gli stessi 15 anni dopo, con quello che è successo nel mezzo. Quel disco parlava di 4-5 amic* in 4 / 5 kilometri quadrati di città, ed è stato il mezzo che ha fatto uscire Vasco per la prima volta dai confini di quella città, le ha suonate un po’ dappertutto e ci si sono riviste persone che erano di tutt’altre zone. «Adesso sono tornato un po’ lì, come per chiudere il cerchio, oppure per continuarlo, perché non è una chiusura. Non aveva neanche la forma di una canzone, ho seguito semplicemente il filo delle cose che volevo raccontare per esprimermi e per liberarmene».

Ci abbracciamo è stata scritta quando ancora gli abbracci non erano considerati rischiosi, quasi illegali, e quindi così incredibilmente preziosi.

Mentre altre canzoni sono state scritte durante il lockdown, come Paesaggio dopo la Battaglia, in cui vengono ritratte tante “Italie” diverse: c’è l’Italia di Fenoglio, dei partigiani che corrono giù dalla montagna fra gli spari, ma anche quella dei rider, che erano gli unici che giravano per la città, in missione per una multinazionale, in bicicletta fra le macchine.

Il Sentiero degli Dei, che chiude il disco, è più un’allusione intima alla situazione attuale, e allo stesso tempo mette al centro un tema del disco che è quello di rimettere gli esseri umani nella giusta proporzione rispetto al resto: l’ultima frase del disco è proprio: “siamo solo due forme di vita / sul terzo pianeta / del sistema solare”. «Da dominatori del sistema, e anche un po’ dell’universo, questa situazione ci ha un po’ ridimensionato, e ci ha fatto capire che non siamo superiori a nessuna specie, e forse siamo una delle meno evolute, perché siamo sul pianeta da poco più di 300 mila anni, quando le piante sono sul pianeta da 5 milioni di anni e non credo che come specie umana sarà facile arrivare a quel tipo di evoluzione. Non per niente stiamo interagendo con il nostro ambiente rendendolo sempre più inadatto alla vita umana, e più adatto alla vita ad esempio dei virus, quindi anche questa cosa non fa di noi una specie particolarmente intelligente, anche se ci crediamo tale».

Due animali in una stanza, anche questa canzone risulta un po’ strana perché si è abituati a canzoni d’amore che celebrano l’inizio o la fine di un amore, le parti considerate più intense, invece questa canzone celebra la durata, quello che c’è in mezzo, quella che Ungaretti chiama “la quiete accesa”, quindi anche un po’ in un mondo dove tutto cambia, queste due persone si dicono “ancora, ancora, ancora”. «Mi interessava appunto non celebrare la prima o l’ultima notte insieme, ma la tremillesima».

Album decisamente anomalo, molto sincero. Addirittura, Chitarra Nera sembra quasi un flusso di coscienza, come se tu volessi lasciarti andare completamente raccontando questa storia. Potresti spiegarci meglio come queste canzoni sono nate – con un tempo abbastanza lungo - e che cosa ti hanno portato, in particolare Chitarra Nera?

Molti pezzi sembrano quasi delle piccole sceneggiature cinematografiche, non è un caso che tu abbia scelto attori della caratura di Elio Germano per il video di Chitarra Nera, e Stefano Accorsi per quello di Ci Abbracciamo.

Chitarra Nera mi ha fatto iniziare a scrivere il disco. Negli ultimi anni ho iniziato un po’ questa pratica di riprendermi la musica e la scrittura anche come mio intimo strumento di conoscenza di me stesso e di tutto quello che c’è attorno, e anche come meccanismo di guarigione: io sono molto convinto che la scrittura, l’arte, la cultura - sia nel crearla che nel recepire quella degli altri - sia un grande anticorpo, e in quest’anno l’ho sentito ancora di più.

La scrittura è durata due anni perché nei due anni precedenti mi sono fermato completamente: la musica si è tenuta abbastanza lontana da me e io lontano dalla musica, perché ero un po’ disilluso – concetto che riprendo un po’ in Chitarra Nera - rispetto all’utilità di quello che poteva essere scrivere dei dischi, quando mi sembrava che poi nell’ambiente musicale il punto fosse orizzontale, cioè espandere sempre di più il proprio pubblico, fare la canzone quasi come se fosse un’opera ingegneristica, con tutte le cose al posto giusto, come se fosse copywriting per la pubblicità, con la frase ficcante per andare in radio, con l’attenzione per espandere i followers, con le cose anche un po’ patetiche e morbose che ci sono, per suonare nei posti sempre più grandi… C’è proprio una visione espansionistica che non mi corrispondeva, anzi mi sentivo quasi in difetto a non avere questa ambizione. Invece mi sono fermato, e nel lungo periodo di riflessione - ho passato il primo lockdown nel mio studio a Ferrara, dormendo anche lì - mi sono ritrovato con la musica come se fosse altro anticorpo, era come se le canzoni mi rafforzassero il sistema immunitario, almeno quello dell’anima sicuramente.

E quindi ho ricapito come poteva essere anche non pensare la musica solo orizzontalmente, ma anche verticalmente, andando nel profondo per accedere a dimensioni altre, che è poi anche il motivo per cui come esseri umani siamo ricorsi alla musica. Ho ascoltato molta musica che non è fatta per essere venduta, ad esempio musica etnica, musica tradizionale, pensata per le feste, per i funerali, per altri momenti della vita umana, e questo mi ha fatto davvero capire il mistero da non sottovalutare delle canzoni, e da qui piano piano ho ritrovato la fiducia che mi ha fatto scrivere le canzoni. Io mi ci ritrovo a scriverle, non forzo il processo di scrittura: è un meccanismo che non riesco a tradurre adesso razionalmente, aspetto che sia una necessità e che esca. Bisogna avere rispetto del tempo di silenzio, di riflessione, di creazione. Quattro anni sono un tempo fuori luogo e controproducente, ma per me è inevitabile, non è una scelta. È l’unico modo per me di rapportarmi a quello che faccio.

Abbiamo introiettato così tanto il modello delle macchine che siamo frustrati se non funzioniamo tutto l’anno produttivamente sempre uguali, estate/inverno, mattina/sera, influenza/non influenza, con un tasto on che ti fa fare quello che fai, in questo caso scrivere canzoni. Invece non è così! Siamo governati dalle stesse leggi che governano il resto della natura, che a noi sembrano illogiche, le regole che governano il temporale, il vento, le maree, i terremoti… tutte queste cose qui sono imprevedibili e vanno a momenti, non siamo delle macchine aritmetiche.

Sicuramente mi interessa questo fatto che mi hai citato dei piccoli film, perché poi a posteriori me ne sono accorto anch’io. Per me è importante che nelle canzoni, e nelle persone che vivono in quella canzone, ci sia il soffio della vita: il mondo della canzone è fatto di dettagli che spesso si contraddicono, ed è questo che vi conferisce umanità, altrimenti sarebbero solo delle generalizzazioni. Io da sempre me le vedo proprio le canzoni, le immagini: per me sono proprio libri di fotografie senza fotografie.

Come ti rapporti al discorso social?

Io con i social ho un rapporto controverso, perché è comunque una cosa per me relativamente recente, che non ha avuto a che fare con la mia crescita, quindi mi ci rapporto come una forma ancora altra.

In generale uso i social solo come condivisione di cose che mi interessano - un libro che ho letto, un’esperienza, un viaggio che ho fatto - e far sapere le cose che faccio, le date quando sono, quando esce il disco. Resta un canale quindi fondamentale soprattutto per me che da sempre mi sono autoprodotto; ho iniziato a fare questo lavoro e non ho avuto un ufficio stampa per anni, quindi so che non si possono ignorare, ma resta per me una domanda aperta. Ma non voglio adeguarmi a quella che Byung-Chul Han chiama “la società della trasparenza”, dove se non sei trasparente sembra che tu abbia qualcosa da nascondere, quindi non sono più accettate la timidezza, il distacco, perché sembra che te la tiri. Io ho sempre un po’ patito questa cosa, perché sono sempre stato considerato snob, e invece sono solo timido su certe cose, o molto riservato, ad esempio le mie relazioni intime non ci sono mai nei social.

Come fai a conciliare il tuo aspetto più introspettivo, riflessivo ed apparentemente distaccato dal contesto “reale”, alle uscite musicali che ad ogni modo appartengono ad un mondo più frenetico, urbano e social, fatto di scadenze, uscite, pubblicazioni e tour?

Direi che non riesco proprio a conciliarlo del tutto per ora, nel senso che per me il modo di conciliarli significa immergermi e poi allonanarmene, quindi a me anche adesso piace tantissimo parlare del disco, amerò tantissimo fare i concerti – più ce ne sono meglio sto – perché so che in autunno mi ri-ritiro, quindi per ora sono nel momento di condivisione, ci sarà poi una fase di ritorno alla riflessione. Ma credo che anche questo sia indispensabile, un po’ come le stagioni: c’è l’inverno dove le piante quasi spariscono, poi altri momenti in cui rifioriscono. Questo intendevo quando dicevo che non siamo produttivi allo stesso modo sempre; però il mio lavoro mi piace perché è fatto di tante situazioni diverse, passo da essere topo di biblioteca a fare il frontman sul palco, quindi è veramente un cortocircuito che però fa parte dei miei bi-tri-polarismi. Forse asseconda anche il mio essere controverso, cioè mi piace fare ritiri di meditazione nei posti sperduti, come mi piace tantissimo bere la birra con gli amici, che non vedo l’ora di vedere tutti assieme quando si potrà. Quindi semplicemente cerco, come tutti, di trovare un equilibrio.

Mi ha colpito la cosa che dicevi che sembra che io viva in modo distaccato rispetto alla realtà quotidiana, invece per me quella lì è la realtà quotidiana, per me è reale cercare di uscire dalla città quando si può. Viviamo in città che sono fatte da esseri umani per esseri umani, ma è un gioco di specchi fra problemi inutili che ci accecano. Crediamo che sia la politica che manda avanti il mondo invece è una stella che si chiama sole, perché nelle città perdiamo il senso della realtà, perdiamo il senso che moriremo e non sappiamo quando. La prima canzone dell’album si chiama 26000 giorni, che è la media di vita mondiale: abbiamo i giorni contati, ma è una cosa bella, saperlo rende più prezioso ogni momento. Questo è reale. Io sento la realtà quando vado fuori dalle città, così come questo periodo non è stato né irreale né in stand-by, ma è stata vita, ogni momento è vita, quando la si vive con una certa pienezza. L’unica irrealtà che vedo è forse proprio quella della nostra quotidianità cittadina, perché non tiene conto di tutta una serie di cose fondamentali, delle leggi dell’universo.

Ci potresti spiegare meglio il senso di empatia che pervade i tuoi brani? Soprattutto in Mezza Nuda, che è una meravigliosa canzone d’amore, e poi anche ne Il Sentiero degli Dei.

Per me la possibilità di trascendere è una delle cose più importanti nelle canzoni, la possibilità di andare così nel profondo, dove c’è qualcosa di condiviso, che ci lega. È una delle grandi opportunità dell’arte. Picasso diceva che l’arte serve a togliere la polvere dei giorni, e quindi ce li fa vedere più splendenti: ci fa vedere il nucleo pulsante della vita, che a volte è impolverato dalle vicissitudini. Ci fa sentire veramente quel cuore incandescente che c’è dentro il pianeta terra, attorno a cui tutti siamo, che fra l’altro è composto dalle stesse sostanze di cui siamo composti noi. Questa follia per cui ci sentiamo superiori ad un animale, o una pianta, ma superiori in cosa? Forse un uccello è superiore a noi solo perché riesce a volare, noi ci sentiamo superiori perché scriviamo la Divina Commedia, mentre una pianta è superiore a noi perché vive enormemente di più, però dipende qual è la gara no? Secondo me mettere un attimo in discussione questa cosa rende più reale il rapporto con il resto delle forme di vita.

In Chitarra Nera dici “suoni e fai / pubblicità. Ma tu in fondo sei qui davanti a noi per fare pubblicità al tuo disco, allora vorrei capire: qual è la sensazione che provi? Come ti senti?

Sento che sto condividendo le cose che ho fatto: questo lavoro ha a che vedere con l’espressione, con lo spiegare quello che si è fatto. Mi sembra molto naturale dopo due anni di lavoro cercare di condividerlo. Anche dargli una visibilità è sicuramente parte di questo processo, di cercare di raggiungere gli altri. È come preparare un regalo e cercare di farlo a più persone possibili. O almeno io la vedo così. Poi può essere visto in modo più commerciale, ma è l’industria culturale, quindi condividere cultura.

Qual è la tua battaglia personale che stai combattendo e che hai combattuto?

La battaglia qui è stata anche mia intima con la possibilità di usare ancora questo mezzo per custodire il fuoco, ho sentito che dovevo ancora avere questo coraggio continuo di aprirmi e rivelarmi. Perché nel fare il mio lavoro ci può essere una paura di esporsi al giudizio degli altri, però nel momento in cui ti esponi davvero la paura passa, perché banalmente ti fa sentire molto forte. Mezza Nuda dice “Quando hai deciso di lanciarti / il mare si è aperto / per lasciarti passare”, cioè te ne sei accorto solo quando hai deciso di lanciarti che il mare si sarebbe aperto, finché eri lì lo vedevi chiuso. Tutto ciò in mezzo alle mille battaglie collettive che ci sono dentro, che sono quelle della nostra epoca, che conosciamo tutti.

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